Tony may

E’ morto Antonio Magliuolo, per tutti Tony May, patron di sei ristoranti italo-americani e ambasciatore della cucina italiana a New York.

Nato a Torre del Greco, è morto a seguito di una breve malattia nella sua casa newyorchese. La notizia della scomparsa è stata data dalla famiglia: lascia la figlia Marisa che, con il nome di Marisa May, è determinata a portare avanti il nome del padre, tenendo alto il vessillo della cucina italiana nella «Grande Mela».

Primo di otto figli di Ciro, capitano di marina, May abbandona giovanissimo la provincia di Napoli per approdare in America, in cerca di fortuna. A quei tempi c’erano solo tre possibilità per sbarcare il lunario: lavorare il corallo, prendere la via del mare o emigrare. Lui opta per la terza. Nel giro di poco più di un decennio di gavetta, da anonimo emigrante diventa il re della tavola, colui che avrebbe esportato la pregevole tradizione gastronomica italiana negli Stati Uniti. A Manhattan May viene dapprima assunto come cameriere al «Rainbow Room», uno dei ristoranti del Rockefeller Center: nel 1964 è promosso a maître di sala e nel 1968 direttore del locale. Passano dieci anni e ne rileva la proprietà, trasformando le sale al 65° piano del grattacielo in un ristorante abbinato a un night club, meta dei maggiori jazzisti del secondo Novecento.

Nel 1979, quando ancora è al «Rainbow Room», fonda il Gruppo Ristoratori Italiani alla Camera di Commercio Italo-Americana. Nel 1986 inaugura il «Palio», due anni dopo il «San Domenico», subito tre stelle, la prima volta per un ristorante italiano.

Nel 1997 May apre «Gemelli e Pasta Break» dentro le Twin Towers, distrutte l’11 settembre nel più grande attentato terroristico della storia americana. Dopo la sciagura, May si adopera in prima persona per sostenere coloro che prestavano soccorso.

Nel 2008 il «San Domenico» chiude i battenti. May guarda avanti e insieme alla figlia Marisa inaugura «SD26», un ristorante su tre livelli a Madison Square Park North, e cioè in quello che sarebbe diventato il polo della buona cucina. In linea con questa nomea, «SD26» nel tempo inanella molti premi, così come il suo patron «per l’incredibile talento e l’impegno nell’imprenditoria culinaria. E per la sua versatilità: non solo titolare di diversi ristoranti a New York, ma anche autore di un libro di successo dal titolo Italian Cuisine: Basic Cooking Techniques».

Per tutto questo, il presidente Oscar Luigi Scalfaro gli conferirà il titolo di commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana (foto a sinistra).

«San Domenico», il miracolo della Settima Avenue

Tony May è stato il titolare del mitico ristorante «San Domenico», iconico tempio di classe e raffinatezza. Portabandiera della migliore tradizione gastronomica nostrana — «Sta provocando una rivoluzione: gli italiani scavalcano i francesi nel mondo della haute cuisine», scrisse di lui The Economist —, il «San Domenico» al numero 240 di Central Park South, tra la Settima Avenue e la Broadway Avenue, a pochi passi dalla Time Warner e dal Lincoln Center, ha visto tra i suoi clienti celebrità del calibro di Michael Douglas, Catherine Zeta Jones, Sylvester Stallone, Sophia Loren, Sharon Stone, Harrison Ford, Demi Moore, Tom Hanks, Ron Howard, Luciano Pavarotti, ma anche finanzieri, industriali, artisti e politici.

Morte di un visionario

La morte di Tony May è qualche cosa di più di un fatto luttuoso. È la perdita di un uomo che ha saputo creare una liaison fra Italia e Stati Uniti. E segnato la strada a molti altri imprenditori del settore. Con un occhio sempre attento ai giovani. A lui, nel 2006, si deve l’Italian Culinary Foundation. Un ente preposto a coordinare i programmi con le scuole di cucina di tutto il mondo. Obiettivo: favorire «l’esportazione» di chef e prodotti italiani a ogni latitudine. E permettere a studenti e docenti di apprendere storia e tecniche della nostra cultura enogastronomica.

Un visionario Tony May. Il suo credo? Dentro a una frase: «In un mondo in rapida evoluzione dove tutto è globale, abbiamo bisogno di mantenere identità e cultura. Se l’Italia lo farà, certamente ci aiuterà a fare la nostra parte qui in America». Teniamone conto.

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